Un interessante tema riguarda l’inquadramento fiscale delle somme percepite a titolo di indennità risarcitorie. Non è chiaro, infatti, come tali importi vadano considerati nell’ambito dell’imposizione diretta: i risarcimenti sono qualificabili come redditi oppure no?
Per risolvere questa impasse interpretativa, occorre analizzare con attenzione il dettato dell’art. 6 del TUIR. In particolare, nel secondo comma si legge che “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.
Secondo questa disposizione, quindi, ogni qualvolta venga corrisposto un risarcimento a ristoro del mancato guadagno ottenuto, tale indennità si sostituisce di fatto al mancato guadagno stesso. Pertanto, l’ammontare del risarcimento costituisce reddito, reddito dello stesso tipo di quello non conseguito a causa dell’inadempimento o fatto illecito del caso.
Se ciò vale per tutti i risarcimenti relativi alla perdita del lucro cessante, lo stesso non vale quando l’indennità sia necessaria al ristoro del cosiddetto danno emergente.
Per prassi consolidata (si vedano, ad esempio, le risoluzioni 356/E/2007 e la 106/E/2009), quando vengono corrisposti risarcimenti volti a reintegrare il patrimonio del soggetto o compensare una perdita economica, queste somme non assumono rilevanza reddituale. Infatti, mancando un reddito originario a cui poter imputare l’imposta, le somme non sono indicabili come tale e, pertanto, non sono suscettibili di essere individuate come base imponibile delle imposte dirette.
Un ulteriore profilo controverso riguarda l’imposizione relativa ad un corrispettivo percepito a titolo di rinuncia all’azione giudiziaria.
In tal caso, occorre comprendere che l’obbligazione che viene assunta dalla parte riguarda un obbligo di non fare, ossia la contrazione della propria libertà di agire in funzione del ricevimento di una somma di denaro.
Pertanto, si tratta di un’obbligazione di non fare, che è quindi oggetto di imposizione diretta, a titolo di reddito diverso, secondo quanto previsto dall’art. 67 comma 1 del TUIR che, alla lettera l), individua come tali “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.
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